mercoledì 22 ottobre 2008

OGGETTIVA_MENTE






Sarebbe bello vedere che cosa accadrebbe se tutti si togliessero i paraocchi con su dipinta questa versione addomesticata di realtà, buona per pacificare la coscienza collettiva. Suppongo che ciò debba accadere, e più presto che tardi. Non sono ancora riuscito a decidere se augurarmi o meno di essere presente. Ma propendo per il sì.


sabato 11 ottobre 2008

Il senso e il linguaggio


Splende nel giorno ottavo l’era nuova del mondo,

consacrata da Cristo, primizia dei risorti.


Le parole di questo inno liturgico domenicale affermano che con la sua morte Cristo ha chiuso la vecchia era del mondo e con la sua resurrezione ha aperto la nuova, l’ “era dei risorti”, di cui Egli è la “primizia”.

Tuttavia a guardare la storia, dal giorno di quell’evento glorioso ad oggi, non si può certo dire che vi sia stata un’epoca di luce e di carità universale, tale da poter essere definita “era dei risorti”. In senso letterale, poi, gli uomini hanno continuato a morire fisicamente, ma di risorti non se ne sono visti. E allora?

Allora bisogna trovare un senso diverso a queste parole, come si addice per ogni espressione che non è puramente umana ma profetica e ispirata.

Bisogna trovare un senso nuovo, leggere questi versi come se fossero un linguaggio nuovo, una lingua straniera, sconosciuta. Meglio ancora, come una lingua madre naturalmente appresa, ma da tempo dimenticata.

Frugando tra le pieghe della memoria alla ricerca di questo senso nascosto, ci si convince che l’inizio della “nuova era” non ha luogo deterministicamente nella vicenda collettiva del mondo, ma nella storia individuale di ogni uomo, proprio con la (ri)scoperta di questo linguaggio nuovo e antico, sepolto nella coscienza, e con la ricerca della sua chiave nascosta.

E il primo significato che si manifesta chiaramente è quello di una “morte” che dobbiamo conseguire vivendo, e che è, prima di tutto, morte al vecchio linguaggio e al vecchio modo di essere e di pensare che l’accompagnano: dobbiamo morire se vogliamo rinascere.

La saggezza innata dell’umanità ha sempre contrapposto alla dolorosa consapevolezza dell’ineluttabilità della morte fisica la consolazione della fede nella sopravvivenza dell’anima. Ma oggi che le “libertà” luciferiane hanno dilaniato il velo delle consolanti certezze fideistiche, ci siamo persuasi che quella fede letterale e acritica, era soltanto un inganno, una benefica e pietosa menzogna. E in seguito a questa scoperta, squarciato lo schermo dell’apparenza, siamo sovrastati dalla percezione dell’assurdità del vivere, con tutto il suo seguito di ansie e di ineludibili angosce.

Ne risultano due possibili esiti, che si alternano, si oppongono e si confondono nelle coscienze degli individui e delle masse che popolano questi tempi sempre più caotici: da una parte, la determinazione a guardare in faccia l’assurdo della nostra condizione esistenziale, accettandone tutte le ipotetiche conseguenze, per devastanti che possano apparire; dall’altra, la fuga e il riparo nella distrazione, nella alienazione, in un nuovo autoinganno: l’immersione nel regno dei fantasmi dell’edonismo, del benessere materiale e sensoriale, delle frenesie consumistiche, delle fantasmagorie luminescenti delle realtà virtuali, catodiche o “al plasma”. Inganno che però si rivela, a conti fatti, molto più precario e insoddisfacente delle fedi di un tempo, forse troppo frettolosamente abiurate

Accade, nei tempi ultimissimi, che il coraggio necessario a perseguire la prima possibilità, cioè ad affrontare consapevolmente l’assurdo esistenziale portandolo alle sue estreme conseguenze, sia sempre più raro ed evanescente. Come se non bastasse, le sue sporadiche manifestazioni odierne possono essere facilmente “neutralizzate” e “sterilizzate”, incanalandole nelle condutture capienti del vitalismo e dell’autoesaltazione individualistica, attraverso forme estreme di svago o di divertimento che, continuamente proposte all’immaginario collettivo, fungono da specchio per le allodole per gli animi potenzialmente “ribelli” alla tragica meschinità del vivere borghese. E così l’adrenalina, ultima via residua per l’apertura di superiori gradi di consapevolezza, diviene invece strumento per nuove evasioni, nuove schiavitù, nuove forme di sfruttamento commerciale: un ulteriore rivolo della corrente del consumismo, che stempera le aspirazioni individuali a uno stile interiore più alto e a una più elevata presa di coscienza nel perseguimento di un precario benessere emotivo e di un febbrile autocompiacimento egotistico. Sentimenti vacui e contraddittori con cui si pretende ingenuamente di surrogare quella pace profonda che nasce nell’animo solo dall’aver sostenuto e superato tutte le prove più dure e le lotte più strenue contro i fantasmi della coscienza e della subcoscienza.

Non rimane dunque, come via d’uscita da questo vicolo cieco, che la ricerca di un nuovo linguaggio, capace di mostrare il senso reale e vivificante di quell’insegnamento evangelico che le incrostazione dell’ignoranza e dell’incomprensione di molti secoli hanno occultato ma non deteriorato. E di quelle parvenze della Realtà incastonate nel Rito che, per essere ai nostri occhi consuete e ricorrenti, sono diventate scontate e banali, hanno perduto ogni attrattiva, ogni capacità di stimolo e di entusiasmo.

Occorre a tal fine una dose cospicua di quel coraggio che tutti abbiamo, ma che quasi mai siamo disposti a tirare fuori: il coraggio di mettere totalmente in discussione noi stessi: certezze, convinzioni, gusti, valori, opinioni consolidate, modi di essere e di pensare, abitudini, passioni, comportamenti, stili di vita….

Il coraggio necessario a morire vivendo e a risorgere a noi stessi trasfigurati, per poter guardare con gioia alla vita terrena e con pacata fermezza a ciò che verrà dopo.

Ce la faremo.


domenica 5 ottobre 2008

LE DUE MASCHERE



Viviamo nell’illusione di essere uno, e invece siamo molti: una legione, si dice nel Vangelo.
È un grande dono quando ci viene concesso che almeno due degli innumerevoli personaggi nei quali è spezzettata la nostra anima si rendano manifesti ai nostri occhi, sia pure nel pallore asettico di un’immagine riflessa. Possiamo allora contemplare due prototipi della nostra frammentarietà.
E l’illusione è squarciata dal dramma di vederci diversi da quell’immagine edulcorata di noi stessi alla quale eravamo da sempre abituati.
Preferiremmo continuare a dormire?
O accettiamo quale sacro dovere, da vivere come un gioco mortale e appassionante, il compito di ridare equilibrio e armonia, ma su un piano più elevato e nobile, al paradosso dei due estremi contrapposti e fieramente avversi?
Ridare candore infantile e curiosità aperta allo stupore all’occhio indomito e fiero, che contempla il mondo, non con indifferenza, ma con quella ferma e serena superiorità che rende pronti alla sfida ed assolutamente equanimi quanto all’esito della stessa?
Tu lo sai già.


[in risposta allo scritto di una cara ed indomita compagna di battaglia ]